STATI UNITI D'AMERICA  -  1985
Il viaggio

E’ stato negli anni ’60 che si è iniziato a sentire la parola “coast to coast”, riferita a quegli Stati Uniti d’America che in quel tempo iniziavano a condizionare gli stili italiani e non solo, nella musica nella moda ed in molte altre abitudini.
Ma agli occhi della mia generazione quelle tre parole erano anche qualche cosa di magico e di evocativo, a metà strada tra il western e la fantascienza. Negli anni seguenti, per diversi motivi, l’immagine degli U.S.A si è un po’ sbiadita ma l’idea di andare da costa a costa, in una migrazione che ripercorreva quella dei pionieri sulla pista dell’Oregon e nel suo successivo inevitabile riflusso, è rimasta viva.
Così dopo molti anni, anche se non con troppa premeditazione, ci troviamo impegnati ad organizzare il viaggio.
Il tempo a disposizione è di circa un mese, cioè quanto basta per fare il giro completo degli States in un virtuale rettangolo. La scelta obbligata per un viaggio del genere è quella di utilizzare i mitici Greyhound per tutti gli spostamenti. Questi mezzi sono un vero mito su quattro ruote e ci permetteranno di viaggiare anche di notte, recuperando così i tempi per gli spostamenti. Inoltre ci consentiranno di vedere degli straordinari panorami e di partecipare a questa umanità che si sposta continuamente in un vero scenario “on the road”.
Dal punto di vista pratico procediamo acquistando un pacchetto di giorni di viaggio strutturato a gruppi di uno, due e tre che ci permetterà di muoverci liberamente senza prefissare nessun tragitto preciso o dei tempi predeterminati.
Il tutto accompagnato da qualche voucher prepagato per una famosa catena di motel, che ci servirà per le notti (poche) che non passeremo su strada.
Come normale, il viaggio parte da New York, punto principale di accesso al continente americano a cui dedichiamo tre giorni, anche se ovviamente non sono sufficienti per una città di queste dimensioni ed importanza, per una visita che, anche se superficiale, ci dà il senso dell’essere la grande mela.
Il tempo a disposizione ci impone anche l’amara scelta tra la strada ed i musei, naturalmente scegliamo la prima, anche se qualcuno può non essere d’accordo, ma d’altra parte la cultura si vede (e si sente) anche immergendosi tra la gente.
I tre giorni sono giusti per una gita al Central Park (che non è bello solo in quanto parco, ma per le persone che lo frequentano), una passeggiata nella 5° Avenue con visita all’Empire State Building ed un giro nei quartieri etnici (italiano e cinese) e nel Grenwich Village, lasciandoci per ultime l’incredibile panoramica dalle Twin Tower.
Partiamo alla sera dalla stazione dei bus sulla 8° Avenue (le cui dimensioni sono a dir poco impressionanti) alla volta di Buffalo, dove arriviamo il mattino dopo.
Come poi diventerà una consuetudine, ci diamo una lavata nelle attrezzate toilette della stazione dei bus e lasciate le valigie nei tanti depositi bagagli a disposizione, partiamo zaino in spalla per vedere le cascate del Niagara.
Non c’è che dire lo spettacolo è di quelli che lasciano senza parole per la maestosità e per l’imponenza che solo la natura è in grado di dare nelle sue innumerevoli manifestazioni.
Il tocco dell’uomo interviene quando a bordo del battello veniamo portati sotto la cascata facendoci, ad arte, bagnare quanto basta per avere una giusta dose di emozione.
Si riparte la stessa sera con destinazione Chicago, città alla quale dedicheremo solo una fugace visita di un giorno con l’inevitabile salita alla Sears Tower, il più alto grattacielo degli USA.
La sera nuova partenza, ci imbarchiamo sul bus per quello che sarà il tragitto più lungo e senza fermate di tutto il viaggio, due notti ed un giorno intero.
La meta è Salt Lake City dove arriviamo dopo aver attraversato tutto il Middle West con le sue sterminate pianure, è infatti detto il granaio dell’America. Il viaggio, fatto anche durante il giorno, ci permette di vedere il panorama ma soprattutto ci fa assaggiare il viaggio in sé.
Il bus ha una velocità media costante sui 90 Km/ora (limite massimo di 55 miglia/ora), si ferma ogni tre ore per una sosta (anche di notte) per un break che oltre a farci bere uno dei soliti caffè lunghi all’americana, ci permette di fare delle esperienze umane indimenticabili.
Salt Lake City, capitale dell’Utah, stato dei Mormoni o come preferiscono dire della “Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni”, è una città molto particolare, quasi un’oasi in mezzo ad un deserto di sale, reso fertile solo con la perseveranza dei perseguitati religiosi, dove la proibizione di qualsiasi vizio arriva a proibire anche il fumare per strada. Tanto che, arrivando, l’autista del bus si preoccupa di dirci che è proibito fumare proprio mentre si supera il confine di stato.
Ci fermiamo solo un giorno, quanto basta per entrare un poco nel tenore della loro religione che permea in maniera quasi ossessiva la vita di tutta la comunità, peraltro molto ricca. La visita al tempio e le spiegazioni apostoliche di rito, fatte da volontari nei loro intervalli lavorativi, chiudono questa parentesi spirituale del viaggio.
Quasi a conferma della vocazione tutta americana per i contrasti, durante la notte entriamo in Nevada, dove tutto (o quasi) è permesso. Per meglio comprendere il livello del contrasto, basta dire che il confine tra i due stati è segnato fisicamente sull’asfalto della strada con una grossa riga bianca e subito dopo 100 metri circa si trova una costruzione enorme (in pieno deserto), dove il bus inevitabilmente si ferma, adibita unicamente a casa da gioco aperta 24 ore su 24. Poiché la cosa ci interessa poco il viaggio procede piatto, a parte le solite soste.
Quella a Reno è sufficiente per notare la commercializzazione del rito del matrimonio, con i tabelloni dei prezzi delle varie funzioni scritti a lettere cubitali fuori dalle innumerevoli chiese di tutte le confessioni (aperte anche di notte), dove si specificano i costi dei servizi complementari al matrimoni (testimoni, fiori, abiti, musica, rinfresco, ecc..).
Come ovvio la prossima meta è San Francisco, dove come al solito arriviamo al mattino (un po’ sconvolti ma sempre entusiasti) e poiché la visita richiede almeno tre giorni, questa volta ci permettiamo il lusso di un motel, dove la prima cosa che faremo è una bella doccia.
Su tutte le guide si legge che San Francisco è la più europea tra tutte le città americane, ed è vero, anche se non ho mai capito a fondo il senso positivo che si da a questa affermazione, in fondo, per noi, per vedere una città di tipo europeo basta restare in Europa, insomma se si va negli USA è per vedere città americane!
A parte la parentesi pseudo polemica, San Francisco è veramente splendida nel suo acceso cosmopolitismo (qui c’è, ad esempio, la più grossa comunità di cinesi fuori dalla Cina e si vede ad esempio dalle cabine telefoniche fatte a pagoda o dalle insegne dei negozi scritte solo in cinese) e per la sua conformazione urbana veramente originale.
Si fa tutto quello previsto dal copione del perfetto turista (giro sui folcloristici tram, visita in motoscafo ad Alcatraz, foto a Lombard street con i tornanti e le ortensie, ecc..).
Dopo tre giorni ci si imbarca per un’altra notte sul Greyhound per l’altra meta fissa della California, Nuestra Señora de Los Angeles, ora più brevemente detta L.A. (el-ei).
Dire che sia bella è difficile, con la sua downtown piena di grattacieli (di media altezza per il possibile pericolo sismico) che si svuotano alle sei di sera, rendendola un deserto di modernità e nella sua smisurata estensione fatta di villette unifamiliari (quelle dei tanti telefilm) tutte simili.
La città è comunque notevole ed è rappresentativa di un certo modo di vita tipicamente americana e soprattutto ... si trova sempre un parcheggio libero! Non a caso è chiamata la città orizzontale per contrapposizione a New York che è la città verticale per antonomasia.
Anche qui decidiamo di fermarci tre giorni, anche per adempiere ad un programmato rito collettivo, la visita a Disneyland. Passiamo infatti una intera giornata completamente immersi in questo mondo fantastico e nello stesso tempo così vicino alla nostra esigenza di, come si dice, mantenere in vita il fanciullo che è in noi.
Noleggiata una macchina (primo strappo alla regola del bus) decidiamo di costeggiare tutte le famose spiagge californiane (anche queste da classico telefilm) sino ad arrivare a San Diego.
Che dire, sono bellissime anche se il mare è veramente freddo e sempre grosso.
Non contenti decidiamo di varcare il confine con il Messico, anche se non si potrebbe con un mezzo a noleggio (infatti la guardia di frontiera si premura a suggerirci in caso di incidente a scappare immediatamente per tornare indietro), tanto per vedere l’altra faccia della frontiera.
L’altra faccia è veramente diversa, superato il confine superprotetto, il verde dei giardini finisce repentinamente lasciando spazio all’arida terra rossa. Tijuana è una vera città di frontiera, nei sui aspetti più negativi e deleteri.
Lo è sia per gli americani che cercano lì un posto per sfuggire alle regole del perbenismo della loro società, ubriacandosi o facendo cose peggiori, sia per i messicani che vi si accalcano, portando una componente di inevitabile delinquenza organizzata e non, per i quali rappresenta la porta di ingresso per un possibile, anche se improbabile, paradiso. Ci riserveremo poi per il futuro, di vedere il Messico in un modo diverso e sicuramente migliore.
Siamo così arrivati alla metà del viaggio, i primi due lati del quadrilatero americano.
La solita partenza di sera ci mette in cammino verso l’Arizona (sulla strada volutamente non prevediamo la visita a Las Vegas) per la città di Flagstaff, base di partenza per il Gran Canyon.
Arrivati dobbiamo noleggiare un’auto (secondo ed ultimo strappo alla regola) che ci permetterà di vedere non solo il canyon ma anche una parte del territorio indiano.
Sul Grand Canyon c’è poco da dire, la sola vista che si ha dal south rim (dove arriva la strada) è sicuramente uno dei più grandi spettacoli che la natura ci può offrire, pur nelle sue innumerevoli e straordinarie manifestazioni.
La sensazione di essere minuscoli di fronte alla natura è quella che maggiormente ci pervade, specialmente guardando, dall’alto di quelle gole frastagliate e policrome, un piccolo gommone che fa rafting nei vortici del Colorado.
Il giro si conclude con la visita ad alcuni villaggi abbandonati, segni di una cultura, quella degli Anasazi, precedente all’arrivo dei bianchi e purtroppo mai più ripresa. La tappa successiva ci porta nel cuore del territorio western, quello tante volte visto nei films e letto nei fumetti di Tex, ed arriviamo ad Albuquerque.
La città non ha niente di particolare, tranne che è famosa per i raduni delle mongolfiere, ma ci consente di andare a Santa Fè, mitico punto di arrivo della prima ferrovia e luogo di raduno delle grandi mandrie che si imbarcavano sui treni per l’est. Poco è rimasto di quei tempi, ma il centro storico, di chiara impronta spagnola, è stato ristrutturato con cura ed è ben conservato a memoria di un’epoca passata.
Se pensavamo che Los Angeles fosse una città orizzontale, questa lo è di più, la densità abitativa in proporzione alle superfice è la più bassa degli USA, il risultato è che occorre camminare molto, ma chi è in auto non ha problemi di parcheggio. Altra notte di viaggio e sbarchiamo a Dallas, non perché ci sia qualche particolarità di richiamo, ma perché cogliamo l’occasione di rivedere una vecchia amica, emigrata lì dalla Romania parecchi anni fa al tempo di Ceausescu, e poi un’altra sosta ci vuole proprio.
La città moderna e asettica, è come prevedibile enorme, anche perché è ormai un tutt’uno con Forth Worth, riusciamo ad averne un eccellente colpo d’occhio dal ristorante all’ultimo piano della torre che giganteggia dal centro.
Il tratto di strada successivo ci porta sempre di più verso est e data la distanza ci occupa anche il giorno successivo. Questo ci consente di apprezzare ulteriormente le dimensioni di questo enorme paese, come ad esempio si vede dall’estensione di alcuni ranch, di cui costeggiamo i recinti di confine, che si estendono per decine e decine di chilometri, comprensivi di pozzi di petrolio con la loro ritmica altalena, alcuni con relative piccole raffinerie.
Il giorno dopo il paesaggio cambia e dalle assolate pianure si passa alle prime zone paludose che ci annunciano la Louisiana e la vicinanza di New Orleans.
La città ha il suo punto d’orgoglio nel quartiere francese, e qui torniamo al discorso di prima su San Francisco, dove tutti si ostinano a farci vedere, come attrattiva principale, i terrazzi delle case con i balconi in ferro, pare gli unici in tutti gli USA. A parte questo la zona è fantastica, soprattutto per la gente che si incontra, qui tutto ruota intorno alla musica locale, dai ritmi caldi e travolgenti.
Dovunque si formano spontaneamente piccoli gruppi per suonare qualche pezzo con gli strumenti a fiato tanto conosciuti per merito dei grandi jazzisti di tutti i tempi. Anche i funerali seguono questa logica, si svolgono con un complesso che precede il corteo funebre, in un ambiente di festa, che richiama inconsciamente il tempo quando i “negri” festeggiavano la morte quale liberazione dalle sofferenze della schiavitù.
La breve tappa di una notte ci porta in Florida e precisamente a Sant Agustine, città tra le più antiche del nord america, perché fondata dagli spagnoli che si spinsero sin qui dal Messico alla ricerca del mitico Eldorado.
La città conserva alcuni monumenti quali la fortezza a guardia del porto ed alcune cose banali (per noi europei) ma qui molto enfatizzate, tipo una baracca di legno che è la prima scuola costruita dagli “Americani” e così via.
Il conto dei giorni residui, per il nostro unico punto fisso costituito dall’aereo del ritorno, è ancora a nostro favore e così nella risalita al nord decidiamo di fermarci anche a Washington, pur non prevedendo niente di particolare, quale nostro contributo al paese ospite. Qui infatti è tutto relativo, dalla pianta della città, nello stile di quelle francesi del XVIII secolo, all’obelisco finto ed alla copia di un tempio greco con la statua di Lincoln, ma nonostante questo vediamo quasi tutto facendo tante file, tutte ordinate, insieme agli americani che cercano qui una loro identità nazionale, non avendone, non per loro colpa, una storica.
Poco ci resta da vedere nel triste (perché sono finite le vacanze) ritorno a New York, dove decidiamo di concederci ancora una breve passeggiata nel centro, considerato che l’aereo parte nella notte, ma un banale problema lo troviamo alla stazione dei bus. Infatti come facciamo oramai da un mese, cerchiamo di riporre le valigie in un locker, ma per la prima volta non riusciamo a trovarne due liberi per mettervi le valigie.
Riusciamo a fatica a comprimere le due valigie nell’unico che riusciamo a trovare libero, tra le centinaia che vi sono, e scopriamo il motivo di questa anomalia, infatti questi ripostigli vengono usati in massima parte dagli homeless (barboni e disperati senza casa) che li utilizzano per  depositarvi in maniera sicura, tutte le loro cose.
Questa è così l’ultima stranezza tra le tante che abbiamo incontrato nel giro di questo grande paese, che per le sue tante  peculiarità merita di essere visto, possibilmente in questo modo, forse un po’ faticoso ma che permette di cogliere le mille sfumature della gente viaggiando con loro, visitarlo cioè dal “basso” e non con i più comodi voli aerei, l’altro classico sistema di visita.