KENYA - 1987 - Un'inusuale, solito viaggio

Che dire del Kenya, un paese africano che, nell’immaginario collettivo, rappresenta un sunto dell’intero Continente Nero. Negli anni del primo boom dell’Africa, siamo nel 1985, questo paese rappresentava il giusto connubio tra esotismo e sicurezza per il turismo.
Fiorivano dal nulla villaggi vacanze e alberghi lussuosi costruiti dai vari stati europei per dare una facile risposta alla voglia di “selvaggio” che c’è dentro ognuno di noi.
Si parte con il volo charter di un viaggio organizzato, considerato che è quello che costa meno, ma con l’idea di uscire un po’ dagli schemi presentati da tutti i tour operator, che propongono prevalentemente mare, relax e safari rigorosamente in gruppo.
Arrivati in albergo per prima cosa apprezziamo, perché negarlo, le comodità messeci a disposizione e gustiamo il mare (è la prima volta dell’oceano Indiano) anche se non ci appare proprio come quello delle cartoline.
Nel frattempo si cerca di organizzare un giro nell’interno del paese.
La cosa si concretizza alcuni giorni dopo quando partiamo verso sera imbarcandoci a Monbasa su di un treno con destinazione Nairobi. Il viaggio occupa tutta la notte, anche se i chilometri non sono poi molti, ma la cosa è dovuta in parte a problemi logistici (non sarebbe pratico arrivare troppo presto al mattino) ed in parte a problemi tecnici (le locomotive sono dei primi del ‘900).
Il fascino è però innegabile, sembra di salire su quell’Orient Express tanto presente nei romanzi gialli e d’avventura, quando con enormi sbuffi di vapore ed il classico rumore degli stantuffi il locomotore inizia a muoversi sui binari.
Ci accorgiamo subito che il fascino è però l’unica cosa che resta di quel treno che sicuramente ha visto tempi migliori e si è fermato, così com’era, quando sono andati via gli inglesi che ce lo avevano portato, costruendo anche una discreta rete ferroviaria. Tralasciando le tovaglie strappate ma di lino, le ceramiche sbeccate ma originali, le posate non troppo pulite ma d’argento, il viaggio è piacevole.
Dopo un sonno breve ma profondo ci svegliamo alle prime luci dell’alba, in tempo per vedere nel panorama che ci scorre davanti dal finestrino, le luci dei villaggi provenienti dai falò ancora accesi.
L’abbinamento, solito, con l’immagine di un presepe è banale ma assolutamente realistico.
Nairobi ci lascia un po’ delusi, così come è naturale per una città che nel centro dell’Africa vuole apparire con un profilo occidentale, ma che ne rappresenta solo un surrogato.
Noleggiata un’auto ci organizziamo per il viaggio di ritorno verso Monbasa studiando un percorso che, attraversando i principali parchi, ci permetterà di vedere quanto di meglio offre questo paese o per lo meno quanto di quello tanto reclamizzato. Dal Masai Mara in poi verso gli altri parchi naturali, i percorsi si snodano tra polvere e sole, tra animali che si lasciano quasi toccare (gnu, gazzelle, leoni intenti a mangiare i due di prima…) e quelli che si intravedono nella loro maggiore riservatezza (leopardi, rinoceronti, …).
La sera ci accolgono sempre dei semplici ma confortevoli Lodge, dove prima del meritato riposo, ci permettiamo sempre un bagno in piscina al chiarore della luna, anche se sono sempre presenti i vigilanti armati che ci guardano a vista, non so se per la nostra sicurezza o per la loro curiosità.
Nella maggior parte dei percorsi a volte da lontano a volte più vicino, ci sovrasta sempre la mole massiccia del Kilimangiaro, con la sua cima quasi sempre innevata.
 Dalla bacheca di un  Lodge ci fa l’occhiolino una proposta di trekking di tre giorni alle falde del vulcano, per un attimo, ma solo per un attimo, pensiamo di andare, ma poi con la comoda scusa di non avere (forse) abbastanza tempo desistiamo dall’impresa. In effetti siamo un po’ pigri per certe cose.
Attraversando la terra dei Masai ci fermiamo in un villaggio dove tradizione e nuove abitudini si incrociano stridendo. Intanto per farci entrare il capo del villaggio ci fa pagare una tassa d’ingresso, che però (bontà sua) comprende anche il permesso di fare fotografie.
Notoriamente i Masai sono una popolazione seminomade e vivono esclusivamente di pastorizia, prevalentemente mucche e capre, in quanto ritengono la coltivazione della terra una attività poco nobile.
Il villaggio è a pianta rotonda ed è circondato da alti cumuli di sterpaglia secca dura e spinosa, che impedisce agli animali di uscire dal recinto. Le capanne sono rotonde, di paglia e sorrette da piccoli pali con il tetto fatto mediante un impasto di fango e sterco di mucca, in una completa simbiosi tra uomo e animale.
La quantità di mosche che circolano nell’aria è veramente incredibile, ma date le circostanze citate non stupisce più di tanto, e si concentra nei punti più umidi del corpo umano, occhi, naso e bocca.
I più colpiti sono ovviamente i bambini piccoli, che nella fascia in cui vengono tenuti dalle madri sulla loro schiena, non potrebbero neanche volendo scacciarle in qualche modo.
Qui ci accorgiamo che la merce di scambio più pregiata è il collirio per gli occhi, oltre curiosamente ai contenitori vuoti dei rullini fotografici che gli uomini usano per allargare i fori nei lobi delle orecchie.
I contrasti come sempre affascinano, anche se a volte lasciano un po’ di amaro in bocca.
Il ritorno al lusso programmato degli hotel della costa ci riporta in quell’aurea di benessere alla quale siamo, nel bene o nel male, abituati e chiude un’avventura che, come tutte, ci farà crescere stimolandoci a percorrere in altri tempi, altre strade in altri luoghi.